La mossa di Renzi è simile
a quella di Schettino: ha abbandonato la nave lasciando i rischi a chi è
rimasto a bordo. Francesco
Forte
- La linea che Matteo Renzi sta perseguendo - e che comporta elezioni
anticipate a settembre - gli serve per evitare che l'attuale governo del Pd si
dia carico della manovra correttiva di finanza pubblica di 18 miliardi di euro
(1,1 punti di Pil) per il 2018: in cui l'Italia dovrebbe raggiungere il deficit
dell'1,2% del Pil. Ciò con taglio delle spese e/o aumento delle tasse. La mossa
di Renzi è simile a quella del capitano Schettino che ha abbandonato la nave,
lasciando grane e rischi a chi restava a bordo senza comandante. In questo caso
grane e rischi toccherebbero a noi italiani, famiglie, imprese, banche e
risparmio con il Paese allo sbando, senza una manovra sui conti pubblici
definita. Ciò mentre salirà il tasso di interesse perché starà per finire la
politica monetaria espansiva della Banca centrale europea che scade alla fine
del 2017. Lo spread sul debito potrebbe accrescersi in misura pericolosa per i
conti pubblici, sicché rinviando la manovra correttiva, per votare a ottobre,
rischiamo un commissariamento tipo Grecia. La manovra di 18 miliardi comporta
in effetti un dilemma molto difficile per Matteo e i suoi, abituati a posporre
nel tempo la messa in sicurezza dei conti pubblici e a fare la cicala che
sciala e canta anziché la formica che raggranella man mano ciò che serve.
L'Italia nel 2018 deve raggiungere l'obbiettivo di un deficit di 1,1% del Pil
non solo perché richiesto dalla Commissione europea, ma anche e soprattutto
perché da Renzi sottoscritto in cambio della possibilità di fruire di tutti
i margini di flessibilità
ottenuti e anche di quelli in più, in base al suo principio per cui due
decimali in più o in meno non contano. Il nostro debito pubblico, senza
correzione dei conti, salirebbe ancora e il mercato finanziario reagirebbe
negativamente. Il dilemma comporta una scelta impervia: fra taglio delle spese
e rinuncia ai bonus in deficit di conio renziano e aumento dell'Iva, rinviato
da un anno all'altro come clausola di salvaguardia attivabile ove non si riduca
la spesa. Il piano renziano, a cui il ministro dell'Economia, volente o
nolente, ha dovuto sin qui adattarsi è stato quello di rinviare ad aprile la
manovra correttiva di riduzione del deficit di 0,2 punti di Pil da farsi
soprattutto con aumenti di accise, riduzioni di esoneri Iva e obbligo della
grande distribuzione a pagare l'Iva sugli acquisti. Ma il peggio sta nell'altro
0,9 di punti di Pil, cioè i 14 miliardi da reperire per il 2018. Il documento
programmatico di aprile può rimanere un po' vago. Ma a fine ottobre bisogna
mettere nero su bianco nella legge triennale di bilancio 2018-2021. Renzi vuole
scaricare ciò sul governo successivo. Ma è ingiusto e pericoloso. È il Pd
renziano che ci ha messo nei guai. La Renzinomics, salita al potere nel 2014,
in tre anni ha creato un deficit di bilancio di 0,3 decimali annui (cioè 0,9
punti di Pil) in più del dovuto. Se Renzi non avesse fatto la cicala cantando e
cantandosela, la manovra correttiva per il 2018 sarebbe solo di due decimali. E
la nave Italia sarebbe in grado di affrontare l'ascesa dello spread sul debito.
Inoltre potrebbe (e dovrebbe) occuparsi meglio della crisi bancaria, del dramma
del terremoto, dell'Ilva, degli immigrati clandestini, dei disoccupati. Il Pd
che ha fatto il danno e firmato la cambiale deve onorarla alla scadenza. Il suo
abbandono del timone a ottobre sarebbe un atto di grave irresponsabilità.
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