di Mara
Carfagna - Siamo
arrivati all’apologia della "gambetta". E per gambetta intendo
quel piccolo segno grafico che trasforma una o in una a. Quel piccolo segno
grafico che sta facendo accartocciare su se stesse alcune donne della politica
italiana. Sono scelte, personali. Ma appunto sono scelte. La presidentessa,
la ministra, la sindaca, la sottosegretaria, declinazioni al femminile che
rendono cacofonicamente inascoltabili alcune parole della lingua italiana. Per
una volta mi trovo concorde con il Presidente emerito Giorgio Napolitano quando
dice che ministra e sindaca sono rispettivamente orribile ed abominevole.
Per non parlare dell’ultima declinazione uscita dritta dritta dal cilindro di
una circolare ufficiale: sottosegretaria. La nostra è una delle lingue più
belle e più musicali del mondo, la lingua di Dante, quella del dolce stil novo
e da chi è toscano per nascita magari ci si sarebbe aspettati un po’ più di
rispetto per un idioma che in quella terra è sbocciato e cresciuto. Ma se le
analisi lessicali le lasciamo volentieri a chi di questo se ne occupa per
professione, quello che invece noi ci chiediamo è: ma quella gambetta, alla
fine, a cosa serve? Una donna ha davvero bisogno di questo per sentirsi
completamente riconosciuta nel ruolo che ricopre? Non credo. La gambetta
non dimostra il valore, l’intelligenza, lo spessore, la preparazione, non
aggiunge nulla e francamente trovo l’accanimento su di essa alquanto superfluo
e stucchevole. E immagino lo stupore di chi ci osserva dall’esterno. Perché non
è obbligando gli altri a chiamarci in un modo piuttosto che in un altro che ci
faremo portavoce della battaglia per l’emancipazione e l’affermazione
femminile. Non è diramando una circolare o interrompendo qualcuno che parla per
rimarcare che si dice ministra e non ministro che difenderemo i diritti delle
donne. Non è intestardendoci sulla declinazione di genere che ci
guadagneremo il rispetto che ci è dovuto o che
risolveremo i problemi endemici dell’Italia legati
alla parità di genere.In
un Paese come il nostro, in cui il tasso di occupazione femminile è al 48,2%
(dati Istat relativi al III trimestre 2016), dovremmo impiegare tempo e risorse
per garantire una adeguata partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In
un Paese come il nostro in cui una donna su due non rientra a lavoro dopo la
maternità si dovrebbero magari sviluppare politiche efficaci per la
conciliazione. In un Paese come il nostro in cui il gap salariale tra uomo e
donna è ancora molto accentuato, nonostante le donne siano a volte più brave e
lavorino di più degli uomini, si dovrebbe lottare per ottenere la parità di
stipendio. Non è facendoci chiamare ministra o deputata che diventiamo
paladine dei diritti femminili. Per rendere il giusto merito al ruolo che
siamo state chiamate a svolgere dovremmo invece impegnarci concretamente per
comprendere le difficoltà, i bisogni e le necessità delle donne cercando di
dare una soluzione pratica ai problemi, anche quotidiani, che tutte quante
vivono. Ci sono milioni di donne in Italia che non ambiscono a ricoprire ruoli
di prestigio in politica o nelle Istituzioni, ma che fanno i conti con
violenze, discriminazioni e ingiustizie. Ed è per loro che dobbiamo lavorare, a
testa bassa, senza crogiolarci in un senso di disparità che con determinati
atteggiamenti non si fa altro che aumentare. Ci diranno che la forma in questo
caso è sostanza. Risponderemo che senza sostanza, non c’è forma che tenga. A
me, e credo anche a tantissime altre donne, l’apologia della gambetta non
interessa. Non interessa essere chiamata deputata invece di deputato,
quello per cui vogliamo batterci è altro, è qualcosa di molto più grande e
importante. È il reale raggiungimento della parità di diritti, che in un Paese
come l’Italia rischia di restare schiacciato in un’infelice diatriba lessicale
portata avanti da chi avrebbe il potere per provare a cambiare le cose.
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