C’è un aspetto politicamente assai rilevante nella
vicenda della sfiducia individuale al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti,
che nelle analisi e nei commenti ancora non ha trovato adeguata attenzione.
Eppure si trattasi un elemento che squaderna scorci significativi per il
prosieguo della legislatura e soprattutto per gli schieramenti che si
confronteranno nella campagna elettorale delle elezioni politiche. Per
comprenderne la portata occorre guardare ai sottoscrittori della mozione e a
chi vi si oppone. Da un lato, infatti, ci sono Cinquestelle, Lega e Sinistra
Italiana; dall’altra il Pd e gli alleati di governo ( ma ormai senza Verdini)
con la necessaria sottolineatura che, almeno finora, né Gentiloni né Matteo
Renzi si sono espressi sulla questione, sia per difendere il ministro che per
prenderne le distanze. Al contrario, c’è stato un documento dei giovani piddini
di censura di Poletti e, per ultimo, la minaccia di Roberto Speranza della
sinistra dem con richiesta di modificare i voucher e il Jobs act pena il voto
favorevole sulla sfiducia. Forza Italia non ha preso posizione, pur se le
aperture di credito di Berlusconi al nuovo presidente del Consiglio non sono
certo passate inosservate e sono spia di un atteggiamento benevolo che sarà
interessante vedere come si tradurrà nel voto d’aula dove non ci sono
scappatoie: neppure quelle garantite dall’astensione visto che a palazzo Madama
l’astensione equivale ad un voto contrario. Questa è la fotografia delle forze
in campo. L’errore più grande sarebbe considerarla una foto statica: al
contrario è il panning, un’istantanea in movimento, il time lapse di una
evoluzione. Il dato vero, infatti, è che quando si arriverà al voto, nel catino
del Senato si sfideranno le due possibili alleanze che, almeno in nuce, saranno
in grado di governare l’Italia. Da un lato, l’intesa, ancora tutta da costruire
e tuttavia assai meno inverosimile che in passato, tra i grillini e la Lega.
Un’intesa anti- sistema, che trova punti di contatto
definiti e quasi fisiologici: basta pensare
all’ultima uscita sugli immigrati postata da Beppe Grillo dopo r lRappresentazione
iperbolica, certo. Ma non così lontana dalla realtà. Prendiamo il binomio
Cinquestelle- Lega. Il no agli immigrati è ok, anche se sull’abolizione del
reato di immigrazione clandestina il web grillino a suo tempo inalberò un
semaforo rosso fisso. E quel No fa il paio con l’altro appena pronunciato sulle
riforme costituzionali renziane. Ma poi se dal No si passa ai necessari sì, il
panorama muta e grossissimi nuvoloni fanno capolino. A cominciare dalla riforma
elettorale da vergare a tamburo battente sulla quale Carroccio e grillini
mostrano distanze quasi abissali. Nè molto meglio vanno le cose dall’altra
parte. Si fa presto a dire Nazareno bis: sicuri che tutti dentro il Pd e FI
sono d’accordo? Non pare proprio. Una volta che il vassoio s’è rotto, come è
accaduto sull’elezione di Mattarella al Quirinale, rimettere insieme i cocci
non viene mai bene. Senza contare che anche qui passare dai No ai Sì è molto
complicato. Intanto perché No e Sì sono stati il discrimine della divaricazione
del 4 dicembre: cicatrici complicate da suturare. E poi perché governare
richiede sintonie assai più forti e solide di una manciata di strizzatine
d’occhio buttate là a beneficio dei taccuini dei cronisti sorseggiando spremute
nei ricevimenti. Un discorso a parte poi merita la sinistra bersaniana. Davvero
al momento del voto si schiererà assieme a leghisti e grillini, fiancheggiando
la possibile coalizione degli anti- sistema? Oppure, al contrario, è verosimile
rientri nei ranghi sostenendo un ministro espressione di scelte politiche e sociali
che vogliono cancellare? Bell’imbuto, non c’è che dire. In mezzo a questo mare
in tempesta ci sta Paolo Gentiloni e il suo governo, alle prese con un incastro
che è peggio del cubo di Rubik. Anche se in verità una soluzione ci sarebbe. Se
infatti Poletti, dopo tre anni passati al ministero, facesse un passo indietro
e tornare alle sue amate Coop, il problema evaporerebbe come rugiada mattutina.
Ma chi può davvero convincerlo a recedere? E soprattutto: a chi converrebbe di
più farlo? Al premier di adesso che ha il supporto del Colle, il quale di
andare ad elezioni subito non ne vuol sentir parlare, o quello di prima che non
vede l’ora di sentire il gong di una nuova campagna elettorale?
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