Il 12 ottobre, si sa, è data che richiama grandi
scoperte e anche nell’anno del Signore 2014 gli italiani si attendono che la
rotta delle caravelle renziane, partite mesi or sono dal porto delle riforme
istituzionali, consenta l’approdo ad un nuovo mondo privo di province e, per
ciò stesso, più equo e più funzionale. Ci duole comunicare che, con buona pace di tutti, la scoperta per gli
italiani sarà esattamente contraria a quella annunciata da capitan Matteo. Non solo le province
continueranno ad esistere ma l’esercizio delle funzioni fondamentali che
dovranno continuare a svolgere (si pensi a strade provinciali e edilizia
scolastica superiore) subirà dei contraccolpi terrificanti. Andiamo
per ordine. Negli ultimi anni il sistema delle province è stato sottoposto ad
una cura dimagrante di proporzioni impressionanti. Se infatti agli 8.000 comuni
italiani, nell’ultimo lustro, la crisi ha imposto sacrifici per non meno di 16
miliardi di euro, per le province non è andata certamente meglio Dal
2011 ad oggi, dati alla mano, la scure centrale si è abbattuta sui vituperati
enti intermedi per 9,5 miliardi. Nel solo 2014 il conto (tra patto e spending
review) ammonta a più di 3,6 miliardi. Ci sarebbe molto da
dire sulla congruità di manovre che colpiscono duro i comuni (7,6 % della spesa
pubblica italiana) e le province (1,3% della spesa pubblica italiana) ma
lasciano sostanzialmente indenne i centri di costo (ministeri e regioni) che
producono il restante 90% della spesa. In
questa sede mi limito tuttavia a ricordare come le province si apprestino ad
affrontare il “giro di boa” del 12 ottobre in condizione di grave debilitazione
economica e finanziaria Per farsi un’idea della situazione basti
pensare che, su poco più di un centinaio di enti: 2
Province (Vibo Valentia e Biella) sono in dissesto;
3 si sono viste costrette ad attivare piani
di riequilibrio, (Potenza per 4,5 milioni, Chieti per 10,3 milioni, Ascoli
Piceno per 14 milioni); 2 (Imperia, con 6,6 milioni e Verbano-Cusio-Ossola, con
2,1 milioni) sono in attesa di accedere
al piano di riequilibrio; 11 hanno sforato
il patto di stabilità; 15 province (per completare il “martirologio”),
hanno dovuto ricorrere ad anticipazioni
della Cassa Depositi e Prestiti a causa di gravi carenze di liquidità, per
quasi 60 milioni.
In un quadro
così complesso si cala la confusissima riforma Del Rio che rimanda, per il
futuro ed in concreto, ad una distribuzione di funzioni tra Regioni, Province e
Comuni più simile ad un cubo di Rubik che ad una mappatura istituzionale delle
potestà pubbliche.
La riforma in realtà prevedeva che fosse un accordo in
conferenza unificata a smistare il “chi fa cosa” tra i livelli amministrativi
interessati dalla vaporizzazione delle province.
Lo scorso 11
settembre, tuttavia, l’accordo in questione ha visto la luce tra mille
reticenze e soprattutto senza chiarire con precisione alcuna delle questioni
davvero rilevanti ai fini delle attribuzioni istituzionali che le province, o
in alternativa i comuni o le regioni, dovranno svolgere dal prossimo 13
ottobre.
Saranno le regioni - in sostanza - a dover smistare il
traffico delle funzioni istituzionali non qualificate come fondamentali ma
attualmente esercitate dalle province
Tutto ciò sulla
base di nebulosissime previsioni tanto in ordine al destino del personale
interessato che delle risorse necessarie.
Per
completare il quadro del disordine perfetto che accompagna la riforma ricordo
la prossima pronuncia che la Consulta dovrà rendere probabilmente a gennaio
2015, su iniziativa di alcune regioni che hanno contestato la legittimità
costituzionale dell’impianto della Legge 56
Insomma i
Presidenti che verranno designati dall’esito dell’election Day
del
12 ottobre 2014 saranno esposti al rischio concreto che la loro esperienza
possa consumarsi in breve tempo e tra mille tormenti amministrativi.
Sono molti a chiedersi se i neoeletti - un po’ come
gli allenatori di calcio alle prese con spogliatoi difficili e risultati
insoddisfacenti - riusciranno “a mangiare il panettone
La prospettiva che
paventiamo con maggiore apprensione è però che i cittadini italiani rispetto ad
almeno 2 delle funzioni fondamentali delle province: a)scuole superiori; b)strade
provinciali; abbiano a subire pregiudizi
di cui, in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, non si sente davvero
il bisogno.
È di proprietà provinciale il 70% delle strade italiane e poco meno di 3.000 studenti affollano ogni giorno i 5.000 istituti scolastici di competenza delle province
Chi, o meglio,
come si curerà la manutenzione di questi beni così preziosi per la comunità
nazionale?
La domanda non sembri peregrina soprattutto alla luce
dell’ultimo “regalo” che Matteo Renzi ha propinato, con la consueta destrezza,
ai futuri presidenti di provincia: una manina invisibile, allo scopo di
rastrellare i soldi necessari a finanziare il bonus Irpef tanto caro al premier, ha svaligiato quel po’ che
restava nelle casse degli enti moribondi
Pochi sanno in
effetti che gli 80 euro si reggono
(oltre che su un salasso imposto ai comuni per 380 milioni di euro) su ben 440
milioni di euro di contributo di solidarietà (sic) da parte delle province che
diventeranno 576 milioni nel 2015 e 585 milioni nel 2016.
Insomma il buon Matteo, dopo aver praticato una mezza
eutanasia alle Province, ha visto bene di derubare
il “caro estinto” degli ultimi spiccioli.
Siamo alle solite:
mentre il premier gonfia il petto e si inorgoglisce per la favolosa percentuale
rastrellata alle ultime europee grazie agli 80 euro, tra breve gli italiani si
scaglieranno contro le province matrigne incapaci di tappare le buche lungo le
strade e di riscaldare le aule.
E così dopo le #scuolebelle e le
#scuolesicure ci accingiamo ad affrontare le prime #scuolefredde dell’era
renziana certi solo del fatto che saranno in pochi a sapere chi (e per quale
motivo) ha rapinato i soldi necessari per il riscaldamento.
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