di Ludovica
Liuni Muller Fabbri, oncologo di 43 anni nato a Faenza
e cresciuto a Forlì, insegna e fa ricerca al Children's Hospital di Los
Angeles. Ha pubblicato su Science e degli Stati Uniti dice: "Questa realtà
ti spinge ad essere creativo e a dare il massimo. E alla fine vince il
merito"
A un certo punto ho pensato: non posso arrivare alla pensione senza
aver dato il mio contributo
alla lotta contro il cancro”. A parlare è Muller Fabbri, oncologo di 43 anni, nato a Faenza e cresciuto a Forlì (al centro nella foto, insieme ad alcuni
colleghi). Dopo la laurea in medicina a Pisa, ha ottenuto un
impiego in ospedale ma, nonostante l’amore per il suo lavoro, c’era qualcosa
che non tornava: “Quando andavo ai meeting scientifici sui tumori sentivo dire che con
la stessa zuppa di farmaci,
combinati in maniera diversa, si era avuto un incremento della sopravvivenza di
due settimane e tutti gridavano al miracolo”. Ma per lui, che fino a quel
momento aveva vissuto la sua battaglia quotidiana a fianco dei pazienti, non
era abbastanza. Voleva dire la sua sulla malattia.
Così, nel luglio del 2003, ha preso i bagagli
ed è volato negli Usa
per fare ricerca: “Il mio primario mi chiese se volevo andare per un anno a Philadelphia, alla Thomas Jefferson University
– ricorda -, ho accettato con grande entusiasmo, perché mi sembrava la risposta
a tutti i miei dubbi”. stati facili: “Non mi vergogno a dire che il primo
giorno non sapevo usare nemmeno una pipetta – ammette -, e spesso dopo una
giornata passata a fare esperimenti mi chiedevo se tutto questo avesse un
senso”. Ma l’ambiente e le motivazioni l’hanno spinto a dare il meglio:
“Mi sono messo in gioco – ricorda – e ho avuto la fortuna di trovarmi nel
laboratorio del professor Croce in anni di estrema eccitazione scientifica”.
Trascorso un anno, era pronto per tornare in Italia: “Avevo imparato molto e mi mancavano i
pazienti –
spiega –, ma il professore mi ha chiesto di restare di più per portare avanti
il mio lavoro e io ho accettato”. L’equipe si sposta da Philadelphia a Colombus, Ohio. Ed è qui
che arriva la svolta nella sua carriera; nel 2009 vince il premio Kimmel Scholar Award come
miglior ricercatore giovane Usa
e nel frattempo porta avanti i suoi studi
sul ruolo dei geni
nello sviluppo dei tumori:
“Abbiamo fatto varie scoperte in quegli anni, ma quella di cui vado più
orgoglioso è aver dimostrato che i MicroRNA (polimeri codificati dal DNA nucleare
eucariotico) funzionano come ormoni
che le cellule tumorali utilizzano a loro vantaggio”, racconta. Lavoro che gli
è valso una pubblicazione sulla rivista Science,
che l’ha dichiarata una delle due scoperte chiave nel meccanismo di azione dei
MicroRNA. Negli Stati Uniti,
però, non ci si può fermare mai: “Qui se vuoi crescere devi cominciare a
camminare sulle tue gambe”, sottolinea. Così Muller ha iniziato a mandare curriculum a varie
università, ottenendo un incarico da ricercatore al Children’s Hospital di Los Angeles: “Qui insegno
e porto avanti i miei esperimenti
– spiega -, al momento stiamo facendo ricerca sul microambiente tumorale”. In
tutti questi anni, però, non ha mai tagliato i ponti con l’Italia, anzi: “Ho sempre
portato avanti la mia collaborazione con l’Irst, l’Istituto Scientifico Romagnolo
per lo Studio e la Cura dei Tumori, dove sono direttore del Gruppo non-coding RNA, e
due volte l’anno torno per seguire da vicino il lavoro dell’equipe italiana –
spiega -. Il mio primario
ha avuto l’intelligenza di capire che la soluzione vincente è mantenere una
stretta collaborazione con gli Usa”.
Anche perché il nostro Paese
non offre le stesse possibilità: “In Italia
ci sono delle splendide menti, ma non riescono a emergere perché le risorse, che ci sarebbero
anche, non vengono investite correttamente”, ammette. E poi c’è il problema
della meritocrazia:
“Anche negli Stati Uniti
ci sono situazioni in cui si va avanti per conoscenze, ma alla fine dei giochi è il merito che conta –
sottolinea -. Se non lavori bene ti tolgono i fondi”. Una realtà
provvisoria, dunque, “ma che ti spinge a essere creativo e a dare sempre il
massimo”, ammette. Anche perché sei l’unico responsabile del tuo lavoro: “Fin
dal primo giorno potevo disporre dei fondi in maniera indipendente – ricorda -,
in Italia
avrei dovuto chiedere milioni di autorizzazioni e perdere chissà quanto tempo”.
Due realtà opposte, anche dal punto di vista accademico: “Nel nostro Paese se vuoi crescere devi
per forza restare attaccato al tuo professore,
mentre qui è l’esatto opposto, ti spingono a trovare la tua strada”, spiega.
Per farlo servono due doti: “Bisogna credere nelle proprie idee e pensare
sempre al di fuori degli schemi,
nella vita
come nel lavoro
– sottolinea -, è importante sperimentare e andare oltre i libri: qualche volta
si sbaglia, qualche volta no”. E a un giovane che sogna di dare un contributo
alla ricerca, cosa consiglia?: “Non vedete frontiere in nessun senso, andate
dove volete, l’importante è trovare un ambiente di lavoro eccellente – ammette
– e se riuscite a trovarlo in Italia
allora restate e continuate a remare per il nostro Paese”
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