(di Danilo Quinto) Il “mondo di mezzo, quello
che comunica con quello dei vivi e quello dei morti”, come sostiene uno degli
intercettati dell’operazione “Mafia nella Capitale” non è una realtà solo
romana. È una metafora efficace per rappresentare una corruzione estesa come
una metastasi in tutto il Paese, che ne impedisce lo sviluppo, insieme alla
forza delle organizzazioni criminali e ai comportamenti delinquenziali di una
buona fetta di cittadini che evadono le tasse.
Se il “fatturato”
della criminalità, in base alle fonti (Confesercenti e Sos Impresa) supera
i 140 miliardi di euro, il “mondo di mezzo” – quello della corruzione – ne
produce 160, il 10% del PIL, in base alle dichiarazioni del Presidente del
Consiglio dello scorso 14 novembre, durante la riunione del G20: «secondo le
ultime relazioni al Parlamento – ha detto Renzi – il ritorno dalla lotta
all’evasione e alla corruzione sarebbe, rispettivamente, di 91 e 71 miliardi.
Non servono nuove regole ma far applicare quelle che già ci sono».
Ogni anno, la Transparency
International pubblica l’indice di percezione della corruzione nei Paesi
del mondo: il «livello secondo il quale l’esistenza della corruzione è
percepita tra pubblici uffici e politici». Per il 2014, l’Italia è
collocata al 69° posto, a pari merito con Grecia, Bulgaria, Romania e Brasile.
È il Paese più corrotto d’Europa.
Secondo i dati del Barometro
Globale della Corruzione 2013, solo il 56% degli italiani è disposto a
segnalare un episodio di corruzione in confronto alla media globale del
69%. Tra le motivazioni, vengono addotte la paura, la sfiducia e la
convinzione che nulla ormai possa cambiare. Non si può mettere in dubbio che
questi sentimenti o stati d’animo incidano rispetto all’omertà che viene
praticata, ma non vi è dubbio che questo avviene rispetto ad una situazione
generale già fortemente inquinata.
L’ammontare del
“denaro sporco” che deriva dall’evasione fiscale, dal fatturato della
criminalità e dalla corruzione, è di tali proporzioni che ragionevolmente
coinvolge una buona parte della società cosiddetta civile. Che tace, perché ne
trae giovamento. Il meccanismo degli appalti di Roma non è diverso da quello di
Milano o di Venezia.
Le inchieste su
EXPO 2015 e MOSE ne fanno testo. In quelle inchieste non è stata contestata
l’associazione a delinquere di stampo mafioso, com’è accaduto a Roma, ma esse
hanno coinvolto nel medesimo modo esponenti di vari partiti e schieramenti,
oltre ad imprenditori legati agli uni o agli altri o ad entrambi. È un
meccanismo “oleato” e ben conosciuto, applicato molto prima dell’era di
“Tangentopoli” e che, col trascorrere del tempo, si è trasformato nella più
grande e organizzata industria del Paese.
Le regole che ci
sono – richiamate dal Presidente del Consiglio – non vengono applicate perché
il “sistema” non lo consente. Anzi, nel caso di Roma – il cui Comune
dovrebbe essere sciolto, non per connivenza con la criminalità, ma per
l’incapacità di governare la città – il “sistema” fa di peggio. Offre a
quella criminalità organizzata che ad esso si propone la gestione di uno dei
più grandi business: quello degli immigrati. “Si guadagna più col loro che con
la droga”, si dice in una delle intercettazioni.
E chi ci guadagna?
Sempre gli stessi. Basterebbe varare un “Albo Nazionale degli Appalti”,
evitando che vengano affidati senza gara e farli controllare – tutti – da
un’unica Autorità di garanzia. Invece, nulla si muove. Ogni volta che scoppia
uno scandalo, tutti si stracciano le loro vesti, sono increduli, si mettono le
mani tra i capelli e esclamano: “Ma fino a che punto siamo arrivati!”.
Ipocriti. Belle statuine. Soggiogati come sono dal fascino di “mammona”, non si
accorgono che può esistere anche la dimensione e l’esercizio di una politica
nobile, che sia d’esempio anche ai cittadini. (Danilo Quinto)
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