I prezzi del petrolio in
risalita (nonostante le oscillazioni) e il mancato raggiungimento del quorum
per il referendum
anti-trivelle non fermano la crisi nel settore Oil&Gas. Nei
giorni scorsi la Cgil di
Ravenna ha lanciato l’allarme: “Le tre big, Halliburton, Baker Hughes e Schlumberger hanno già
ridotto il personale di oltre il 50 per cento”. Proprio per quest’area il
segretario generale della Filctem-Cgil Emilio Miceli aveva definito un eventuale
‘Sì’ al referendum “un errore strategico” e tuttora la posizione non
cambia. “L’effetto negativo che avrebbe potuto generare il risultato della
consultazione sulle trivelle è stato scongiurato”, esordisce la Filctem-Cgil di
Ravenna nella stessa nota in cui però si menzionano 600 posti di lavoro persi
nell’area nell’ultimo anno. La questione degli eventuali
effetti del voto sull’occupazione aveva già spaccato i sindacati e ora, in
questo allarme, c’è chi legge una mancanza di coerenza. “Negli ultimi mesi
Ravenna è stata la capitale
della paura più che quella delle trivelle, perché i detrattori
del referendum hanno puntato molto sulle legittime preoccupazioni dei
lavoratori”, dice a ilfattoquotidiano.it
il segretario provinciale della Fiom Milco
Cassani. Che così commenta i timori della Filctem: “Prendiamo
atto che oggi si lancia un allarme
nel settore nonostante il quorum non sia stato raggiunto. La
verità è che si sono dette mezze verità sui rischi di licenziamenti di massa in
caso fosse passato il ‘sì’”.
L’ALLARME
DELLA FILCTEM-CGIL Di fatto a preoccupare la Filctem Cgil di Ravenna è “lo stato
di crisi internazionale
dell’intero comparto legato direttamente al prezzo del greggio”, nonostante negli ultimi
tempi sia risalito “a quotazioni che avrebbero dovuto già stimolare le oil company a ripartire
con gli investimenti”. Qual è invece la situazione? “Continua la completa stagnazione e la mancanza
di commesse che si ripercuote direttamente su tutte le aziende della filiera
della perforazione”, spiega il sindacato in una nota. “Le principali services
company multinazionali – commenta Alessandro
Mongiusti, della Filctem Cgil Ravenna e responsabile nazionale
di categoria per il comparto perforazione – hanno avviato piani di ristrutturazione
devastanti che vedono coinvolte anche le basi operative nel nostro Paese e
nella nostra città”. C’è possibilità di ripresa? Mongiusti ricorda che
“dopo 40 anni di attività di perforazione ininterrotta a Ravenna, a fine mese
si fermerà anche l’Atwood
Beacon, l’ultimo jack up attualmente operante”. Per non parlare
dei futuri piani operativi comunicati da Eni
per Ravenna. “Non vi sono operazioni in programma per tutto il 2016” dice il
sindacalista. Che prevede: “Se le operazioni non ripartono a breve termine,
quanto rimasto della forza lavoro dell’intero comparto subirà nei prossimi mesi
una decimazione
irrecuperabile”.
LA FIOM:
“BASTA CON LA DEMAGOGIA, SI PENSI AL FUTURO”
A quasi due mesi dal referendum la Fiom ritiene quel voto un’occasione persa. “Ho sostenuto le ragioni del ‘sì’ e lo rifarei ancora perché i fatti di oggi dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, che la crisi c’era già, c’è e coinvolgerà sempre più le comunità se questo Paese non sarà in grado di affrontare una transazione”, spiega Cassani. Che, al di là di come sono andate le cose, ribadisce la necessità di cambiare la strategia energetica nazionale. “Adesso, forse, se ne può parlare con maggiore serenità, senza la demagogia che nei mesi scorsi ha portato solo divisioni”, dice il sindacalista, ricordando che “se si parla di occupazione, bisogna essere onesti e chiarire che non è questa l’occupazione del futuro, come non lo è abbandonare tutto domani mattina, perché è necessario un periodo di transizione, che un ‘sì’ al referendum avrebbe comunque garantito dato che non c’è (come alcuni hanno sostenuto) una parte del Paese composta da irresponsabili”. Ma cosa comporta e quanto può durare questa transizione? “Altro che aumento delle estrazioni come il Governo vorrebbe, dobbiamo muoverci con interventi di riduzione al consumo di idrocarburi e di investimento sul risparmio energetico. Ci possono volere tra i 15-20 anni e va bene così – spiega Cassani – perché non possiamo più compromettere le condizioni di vita anche per le nuove generazioni. Il futuro non siamo noi, ma i figli dei nostri figli”. Il ruolo delle multinazionali, però, è importante. Anche nella fase di passaggio. “Le aziende sono in crisi da tempo – dice il segretario provinciale della Fiom – e queste scelte le avrebbero fatte comunque, al di là del risultato del referendum. Per questo ritengo sia importante non demonizzare la mobilitazione per la consultazione creando alibi alle multinazionali, che noi dobbiamo invece richiamare alla responsabilità sociale”.
A quasi due mesi dal referendum la Fiom ritiene quel voto un’occasione persa. “Ho sostenuto le ragioni del ‘sì’ e lo rifarei ancora perché i fatti di oggi dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, che la crisi c’era già, c’è e coinvolgerà sempre più le comunità se questo Paese non sarà in grado di affrontare una transazione”, spiega Cassani. Che, al di là di come sono andate le cose, ribadisce la necessità di cambiare la strategia energetica nazionale. “Adesso, forse, se ne può parlare con maggiore serenità, senza la demagogia che nei mesi scorsi ha portato solo divisioni”, dice il sindacalista, ricordando che “se si parla di occupazione, bisogna essere onesti e chiarire che non è questa l’occupazione del futuro, come non lo è abbandonare tutto domani mattina, perché è necessario un periodo di transizione, che un ‘sì’ al referendum avrebbe comunque garantito dato che non c’è (come alcuni hanno sostenuto) una parte del Paese composta da irresponsabili”. Ma cosa comporta e quanto può durare questa transizione? “Altro che aumento delle estrazioni come il Governo vorrebbe, dobbiamo muoverci con interventi di riduzione al consumo di idrocarburi e di investimento sul risparmio energetico. Ci possono volere tra i 15-20 anni e va bene così – spiega Cassani – perché non possiamo più compromettere le condizioni di vita anche per le nuove generazioni. Il futuro non siamo noi, ma i figli dei nostri figli”. Il ruolo delle multinazionali, però, è importante. Anche nella fase di passaggio. “Le aziende sono in crisi da tempo – dice il segretario provinciale della Fiom – e queste scelte le avrebbero fatte comunque, al di là del risultato del referendum. Per questo ritengo sia importante non demonizzare la mobilitazione per la consultazione creando alibi alle multinazionali, che noi dobbiamo invece richiamare alla responsabilità sociale”.
UNO SGUARDO
AL MONDO: LA SHELL LASCIA IL CANADA
E mentre a Ravenna c’è preoccupazione per il futuro dei lavoratori, dall’altra parte del mondo, il popolo degli Inuit e il Wwf Canada esultano perché la Shell ha annunciato il suo ritiro dallo stretto di Lancaster. Lo ha fatto nei giorni scorsi, proprio nella Giornata mondiale degli oceani. Tempismo perfetto, non c’è che dire. Come la motivazione del gigante olandese che in un comunicato ufficiale ha dichiarato di rinunciare alle sue concessioni per permettere la realizzazione di un parco marino di fronte alle coste dello Stato di Nunavut. Ma la rinuncia, a settembre scorso, dei progetti in Alaska dopo il maxi-flop costato 7 miliardi di dollari per le trivellazioni offshore nella mare dei Chukchi, parla di tutt’altre ragioni. Le stesse che dal 2008 hanno spinto le maggiori multinazionali a rinunciare all’80 per cento delle concessioni nell’Artico. Il risultato, comunque, c’è: non ci saranno esplorazioni offshore in quel tratto di mare all’estremo Nord del Canada, l’area di Tallurutiup Tariunga, uno degli habitat più ricchi di tutto l’Artico dove ora gli eschimesi potranno espandere l’area marina protetta. Come chiedono da anni
E mentre a Ravenna c’è preoccupazione per il futuro dei lavoratori, dall’altra parte del mondo, il popolo degli Inuit e il Wwf Canada esultano perché la Shell ha annunciato il suo ritiro dallo stretto di Lancaster. Lo ha fatto nei giorni scorsi, proprio nella Giornata mondiale degli oceani. Tempismo perfetto, non c’è che dire. Come la motivazione del gigante olandese che in un comunicato ufficiale ha dichiarato di rinunciare alle sue concessioni per permettere la realizzazione di un parco marino di fronte alle coste dello Stato di Nunavut. Ma la rinuncia, a settembre scorso, dei progetti in Alaska dopo il maxi-flop costato 7 miliardi di dollari per le trivellazioni offshore nella mare dei Chukchi, parla di tutt’altre ragioni. Le stesse che dal 2008 hanno spinto le maggiori multinazionali a rinunciare all’80 per cento delle concessioni nell’Artico. Il risultato, comunque, c’è: non ci saranno esplorazioni offshore in quel tratto di mare all’estremo Nord del Canada, l’area di Tallurutiup Tariunga, uno degli habitat più ricchi di tutto l’Artico dove ora gli eschimesi potranno espandere l’area marina protetta. Come chiedono da anni
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