Molti si
sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi
nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che
ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è
vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi
del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul
piano politico. Ma non è così.
Perché la
Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette
speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si
applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi
è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del
governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a
crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del
sottobosco politico di centrodestra:
oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa
parlare. Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha
colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso
tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse
accaduta sotto il governo Berlusconi.
Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo
scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma
per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le
dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti
marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?
All’alba
della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda
senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai
fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era
iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la
carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato
impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Si
torna sempre a Berlusconi, ma del
resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il
presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I
nemici di Berlusconi, tra i quali mi
onoro di
essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori,
giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti
investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica
italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici
certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della
realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma
l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici
dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi
sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo,
energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca
parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano Repubblica un
maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò
il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è
bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere
è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di
libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole
democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano
costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da
allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è
cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito
contro un metodo di governo? Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e
all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso
sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si
limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma
si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti
anche dinanzi a una contraddizione cosi importante e oggettiva?
Se Berlusconi, che per anni abbiamo
considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza
della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica
che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun
pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza.
Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che
quando al potere ci sono le sinistre, si
è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più
indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che
al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a
dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio)
ritardo sul tema dei diritti civili.
Ma non
cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che
riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani.
E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è
spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo.
Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il
governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo
chiederò fino a quando non avrò risposta.
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