Nervoso, accaldato, a tratti confuso ma felice
come uno scolaretto al primo giorno di scuola. Così Bersani ieri, sullo sfondo
di un pannello rosso fuoco che spiegava più di mille parole, ha presentato la
sua candidatura a premier e il programma dei cento giorni del governo che
vorrebbe. Una via di mezzo tra un “Mucchio selvaggio” da terzo millennio e una
riedizione del vecchio Pentapartito con il Pd al posto della Dc e con Casini
,Vendola e altre ruote di scorta al posto di La Malfa, Malagodi e Saragat! Sarà per la calura eccessiva, resa appena più
sopportabile dalla freddezza della platea, che il segretario ha sintetizzato il
vasto programma quasi in uno slogan per titoli. Più diritti alle coppie gay,
piena cittadinanza ai figli di immigrati e Patrimoniale immobiliare e mobiliare
(magari anche bancaria) sui redditi medio alti.
Ma perché di fronte a questo ex comunista di provincia, bonario quanto
ambizioso e pronto ad andare sino in fondo (Renzi permettendo), il popolo post
comunista e post democristiano rimane scettico, dubbioso se non rassegnato? Una risposta riguarda le divisioni dentro il
partito tra i pochi che credono che Bersani sia il “cavallo” giusto per vincere
e i molti che non lo credono e si stanno logorando fingendo di farlo. Sono
uniti dal desiderio inconfessabile di votare prima possibile per togliersi il
problema, aggravato dal rapporto con gli alleati che dovrebbero spianare il
cammino al vincitore. E qui si inserisce il nodo della legge elettorale e la
zeppa insormontabile di un PdL che ha escogitato un modello di riforma che
piace a Casini come a nessun altro. Ecco perché Bersani ieri insisteva sul
premio alla coalizione che vince (e non al partito) nel terrore che Pier si
svincoli da impegni prima del voto, tenga le mani libere e corra da solo,
valutando ad urne chiuse se e come allearsi. Bersani ha enunciato tre proposte
di sinistra che hanno fatto storcere il naso alla componente cattolica e a
quella pattuglia crescente di riformisti filo Monti che lo considerano ormai
superato rispetto alla leadership di un grande partito polare di massa. Da Veltroni a Letta, da Gentiloni a Fioroni
sanno che l’opinione pubblica moderata non potrà mai eccitarsi per questo
manifesto di intenti a favore dei gay, degli immigrati o di una super
patrimoniale che colpisce comunque chi le tasse le paga già. E perché Casini
dovrebbe accettare lo stesso ruolo di Vendola, gli stessi spazi, gli stessi vincoli
di coalizione che Bersani vuole per evitare la fine di Prodi e della sua
Unione?
Nessun commento:
Posta un commento