Sono passati dieci anni dalla sua
morte, ma di lui si parla ancora, naturalmente bene, checché ne dica Ferruccio
de Bortoli, che sul Corriere della Sera lo ha commemorato con una prosa stranamente
accorata per uno che di cuore ne ha poco e, di solito, nasconde anche quello. Gianni Agnelli comunque è stato un grande: un
grandissimo bluff, ed è giusto non venga dimenticato. Difatti è
passato alla storia come re d’Italia non tanto per ciò che ha dato al Paese,
quanto per ciò che ha avuto. Noi italiani siamo fatti così: cerchiamo di
fottere il sovrano per tirare a campare, ma se è lui a fregarci gli
riconosciamo volentieri una certa superiorità. Onore al merito, anzi ai meriti,
dell’Avvocato che fu promosso tale coram populo senza mai esserlo stato; che cominciò a lavorare a 45 anni, età
alla quale i suoi dipendenti andavano in prepensionamento; che presiedette
Confindustria inciuciando con Luciano Lama, segretario generale della Cgil, e
concordando con lui il punto esiziale di contingenza; che fu nominato senatore
a vita grazie all’incosciente generosità di Francesco Cossiga; che prima fondò
a Venezia il museo di Palazzo Grassi, poi lo affondò; che ricevette in eredità dal nonno (e da Vittorio Valletta)
una stupenda fabbrica di automobili riducendola a rottame,
successivamente rimessa in piedi dal fratello Umberto e da Sergio Marchionne. Agnelli più che un imprenditore era un prenditore:
lo Stato lo ha sempre aiutato, gli ha dato soldi senza mai pretenderne la
restituzione. Quando morì, l’azienda era sul punto di consegnare i libri in
tribunale. Il patrimonio personale del maggiore azionista fu cercato
all’estero: si sospettava addirittura che una quota di capitali fosse stata
sottratta al fisco; si ignora come si sia conclusa l’indagine
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